L’episcopato alifano ed il culto in età normanna.

di Angelo Gambella

Alla caduta dell’impero romano il Sannio e la Campania già versavano in uno stato di profonda decadenza. Allife, Cubulteria, Caiatia, subirono, come altri luoghi, un processo di spopolamento e degrado urbanistico. Pur nel mezzo di notevoli complicazioni, l’istituzione vescovile non era scomparsa e conforta la notizia di Clarus vescovo alifano che l’anno 499 prendeva parte al concilio romano indetto da papa Simmaco II. Le difficoltà del clero e del vescovo di Cubulteria, presso l’odierna Alvignano, emergono chiaramente da due lettere di Gregorio I del gennaio 599. Quando, negli anni 600, papa Onorio I scrive al principe beneventano menzionando Alife, la dice semplice locus. Il fiorire dell’istituzione monastica in Europa non risparmia il territorio alifano, dove sorgono S.Maria e S. Pietro presso il Volturno, S. Maria in Cingla, S. Salvatore, S. Secondino al Volturno. Il secolo IX è contrassegnato da eventi nefasti che ad Alife sembrano iniziare col trasferimento delle reliquie dei santi Sette Fratelli dal deposito alifano a Benevento (839?). Le istituzioni religiose di Alife e Caiazzo dovevano far fronte ad emergenze d’ogni tipo, a partire da eventi sismici per arrivare alle scorribande saracene ed alla guerra civile fra i nobili longobardi. La cattedra vescovile venne ripristinata nel 969 contemporaneamente all’elevazione a chiesa metropolitana di Benevento ed il primo vescovo noto è Paolo (982). Paolo, già forse anziano come il suo omologo Orso di Caiazzo, impersona l’inizio del risveglio della città. Così come i loro successori, Vito ad Alife e Stefano a Caiazzo, che guidano le due Chiese per molti anni, essi rappresentano le figure dei padri della patria, i protagonisti della rinascita cittadina. La conquista normanna, operata nella seconda metà dell’XI secolo, comportò l’unificazione di Alife con Caiazzo, Telese e Sant’Agata de’Goti sotto un unico governo. Se il periodo normanno può essere definito il periodo d’oro per Alife nel medioevo, ciò è stato reso possibile dal risveglio inziato nella seconda metà del secolo X, come dicevamo, con l’elevazione della città a sede episcopale e di contea. Era doveroso ricordarlo.

Dopo il breve episcopato di Paolo , il clero alifano scelse nella chiesa intitolata a S. Maria, posta dentro le mura, quella facente funzioni di cattedrale, veniva consacrato Vito, ancora in vita nel 1020. Famoso il suo memoratorium, comprendente documenti antichissimi che iniziano dal tempo di Arechi II (758-787), e documenti contemporanei. Il memoratorio del battagliero Vito servì nella Causa contro S. Maria in Cingla, possesso della potente abbazia di Montecassino, ma la sua utilità fu minima. A Vito subentra un longobardo, forse, Arechis, certamente vivente nel 1059 e nel 1061, che non sembra permanere in carica molto oltre il 1066. I normanni arrivarono solo novanta anni dopo la ricostituzione dell’episcopato, il che fa ritenere che esso non fosse affatto ricco. I conti longobardi, avallati dai principi, contribuirono con la concessione dell’uso delle acque con facoltà di istituire mulini e fare chiuse ed appezzamenti, ma le rendite non furono alte neppure alla fine dell’esperienza normanna se, nel 1308, la mensa vescovile versava 42 once e mezzo al di sotto di diversi vescovadi vicini. Una degna chiesa cattedrale, intitolata a S. Maria, già esisteva quando, grazie a maggiori disponibilità finanziarie e per altre esigenze, ne fu eretta una nuova. È innegabile che la costruzione della cattedrale romanica (primo XII secolo) sia opera dei conti normanni (v. tabella tratta da Potere e Popolo nello stato normanno di Alife).

1. Rainulfo

2. Roberto

3. Rainulfo

4. Riccardo

Malgerio

5. Andrea

6. Ruggero

(7.?)Riccardo

8. Giovanni

(I) [f. di Asclettino Quarrel]

f. Rainulfo (I)

(II) f. Roberto

[di Ravecanina] f. Roberto

[Postella ?]

f. Riccardo di Ravecanina

f. Riccardo [di Ravecanina ?]

[II, f. Riccardo dell’Aquila ?]

f. Riccardo di Ravecanina

1066ca-1087

1087-1115

(1108-)1115-1137|39

1137|9

(1150)

1155|58 (1167-69?)

1169-?

1178?-?

1191-97|98

La serie dei vescovi del periodo normanno si apre con un anonimo, o forse Gosfridus, il cui nome, come quelli di Vito ed Arechi, appare inciso su una lapide murata nella cripta della cattedrale. Segue il reverendo padre Roberto, in carica da qualche anno prima del 1098 ed ancora vivente nel 1132. Dopo di lui c’è Pietro, vivente nel 1143 e nel 1148, e Baldovino, nominato nel 1179, fin verso il 1198 quando troviamo Landolfo, in carica in epoca sveva. In periodo normanno, la diocesi è ricordata nel Provinciale di Albino (compilato alla fine del sec.XII, ma con materiale d’inizio secolo) e nei privilegi di Atanasio IV, del 1153, e di Adriano IV, del 1156. Compare nel Liber Censuum del 1192, dal quale non risultano possessi papali nell’episcopato Alifano. Il vescovo alifano è ritratto con gli altri vescovi suffraganei sulla porta del primo ‘200 della cattedrale beneventana; l’incisione attorno all’effigie del presule è "Ep(iscopu)s || Alifii" (v. foto in Clarus n.0).

Di chiese, spesso piccole cappelle, ve ne erano molte. Soltanto Montecassino, nel 1137, ne possedeva 26 ed ognuna di esse aveva un prete; in seguito un vescovo, come vedremo, domandò al papa se un prete potesse tenerne due, tante ancora ne rimanevano in piedi. Quando il conte Roberto (1106) donava un pezzo di terra alla Chiesa di San Bartolomeo Apolostolo, si faceva esplicito riferimento alle figure dei rectoribus, e custodibus, esempi di sacerdoti che ricoprivano particolari funzioni. Le chiese e le celle monastiche di cui abbiamo notizia erano tutte latine. Se fosse dimostrata l’origine greca di Letino, potremmo stimare l’esistenza, nell’alto medioevo, di una chiesa od eremo di rito orientale a quota mille, sul massiccio del Matese.

Una chiesa maggiore va riconosciuta in quella di S. Mercurio (=martire nel VI secolo, molto venerato dai longobardi) di Alife, cui era annessa una cella monastica, possedimento di S. Sofia di Benevento, almeno dal privilegio di papa Pasquale II, del 1102. Nel primo quarto del dodicesimo secolo Bansolino, figlio naturale del conte Roberto, faceva cospicua donazione alla chiesa di S. Mercurio. Al 1153 risale una donazione, di tale Giovanni figlio di Petri Ursi, di due appezzamenti, al monastero di S. Mercurio nella città di Alife. Nel 1197, figura la restituzione di un mulino sul Volturno, appartenente alla chiesa di S. Mercurio, indebitamente ritenuto da Giovanni conte di Alife.

In epoca normanna, i cittadini che avevano casa attorno alla chiesa di S. Pietro de Mercato si riunirono in una confraternita, attiva ancora nel 1226. Nulla sappiamo di iscritti e benefattori. Nello stesso anno era attivo un monastero, detto San Benedetto di Alife, dentro le mura. Una terra del monastero confinava con una terra della chiesa dei Santi Sette Fratelli e con una dell’Ordine Gerosolimitano.

Anche in mancanza di sicura documentazione storica, la presenza in Alife è ragionevole per una lunga lista di pontefici, da Niccolò II a Urbano II, a quelle dei papi del primo quarantennio del XII secolo, Pasquale II, Gelasio II, Callisto II, Onorio II, Anacleto II ed Innocenzo (anche lui) II, per continuare con Adriano IV e i suoi successori. Prendiamo come esempio il papa Urbano II, molto impegnato per il Sud normanno ed autore di ben 5 viaggi: nel 1090 è a Sessa Aurunca, Capua, Benevento, Montecassino; nel 1092 a Benevento; il 31 agosto del 1093 è a Telese (Italia Pontificia VII, 2 p.59 n.105), il 3 ottobre è a Caiazzo (I.P. X,139, n.5); durante uno di questi viaggi dovette vedere di persona il monastero di S. Maria in Cingla presso Ailano. Nel 1098 è a Capua, Benevento ed ancora Sessa. Allo stesso modo, non è da ritenere improbabile il passaggio di grandi intellettuali del tempo, quali S. Anselmo di Aosta, giunto da Roma all’abbazia di S. Salvatore di Telese –e che terminò di scrivere il trattato Cur Deus Homo a Sclavi (Liberi)– e S. Bernardo di Chiaravalle, quest’ultimo, forse, nel 1137.

Testimonianze di fede di grande interesse –e, soprattutto, ben documentate– coinvolgono la cittadinanza nel XIII sec., quali la predicazione di San Bonaventura da Bagnoregio o il miracolo di Pietro d’Alife. Prima del XIII sec., oltre alla venerazione dei più diversi santi titolari delle chiese, è da ricordare il miracolo di Basilica, guarita dopo essersi recata sulla tomba di Sant’Alberto a Montecorvino in Capitanata. La datazione di questo fatto è da circoscriversi fra il 1100 ed il 1130.

Nel 1132, al culto tradizionale per il Cristo, la Madonna, gli Apostoli, l’arcangelo Michele, i S. Sette fratelli, forse oriundi alifani, si aggiungeva il quasi sconosciuto Sisto, il sesto vescovo di Roma dopo Pietro (116ca-125ca). Le vicende storiche della traslazione di S. Sisto ed il suo culto ci testimoniano la religiosità degli alifani. Dobbiamo la testimonianza in forma scritta degli eventi all’iniziativa del vescovo Roberto ed alla penna dell’abate telesino Alessandro.

Alessandro di Telese narra gli eventi partendo dall’eccezionale figura del conte Rainulfo, figlio del conte Roberto, non rinunciando ai segni divini, in cui scorgiamo la semplice fede medievale, che portarono il secondo Rainulfo, giunto a soccorrere il pontefice Anacleto II, a chiedergli le reliquie di un celebre santo, per poi ricevere dal papa, ancora per intervento divino, quelle di S. Sisto I. La richiesta del conte, di ispirazione divina, motivata dall’insorgenza della malaria, gli sarebbe, una prima volta, stata negata. La consegna delle reliquie di S. Sisto, sarebbe stata dovuta all’improvvisa e miracolosa rottura del sepolcro del santo nella basilica vaticana, con la conseguente consegna in segreto della cassa e l’immediato trasporto in città, dove giunse. Era la primavera, forse il maggio del 1132: poche settimane dopo avvenne il solenne ingresso in cattedrale.

Rainulfo, in realtà, voleva dotare la nuova cattedrale di una basilica interna, proprio come un luogo di raccoglimento interiore che ospitasse le reliquie di un santo importante, per devozione ed anche, forse, a scopo taumaturgico. La decisione non fu unilaterale, il vescovo, il clero e lo stesso popolo dovettero fare al conte la duplice richiesta di una nuova cattedrale e del corpo di un santo da venerare. Se il padre Roberto, il conte diplomatico, aveva trasportato, in Sant’Agata de’Goti, reliquie di un santo locale, Rainulfo, il conte guerriero doveva far di più. A Roma, facendo leva sul suo sostegno vitale per il partito anacletiano, quasi obbligò il papa e la casa dei Pierleoni ad una concessione insolita, e pure segreta, per non turbare il popolo romano già scosso dallo scisma.

La fede in S. Sisto divenne subito intensa, se può dimostrarlo il ripetersi del nome Sisto in cittadini alifani documentato sin dal XIII secolo (il cronista de Sisto). Le preghiere cristiane furono di consolazione durante i crudi anni di guerra (1132-39 e 1154-67). Una testimonianza in tal senso ci viene da una donna della valle telesina, la quale riferì di aver visto in sogno la Madonna e di averla invocata: "Perché Madonna, non preghi per noi e non ci liberi dall’oppressione di questo re?". Il re di cui si fa menzione nella visione è Ruggero II, ed infatti, ci riferisce tutto Alessandro di Telese, in uno degli ultimi capitoli del codice rinvenuto a Barcellona, in Spagna.

Le vicende della traslatio furono immortalate in affreschi della chiesa di S. Sisto fuori le mura, andati purtroppo perduti, seppure ne resti una riproduzione –non è detto se libera o fedele agli originali– su due tele della cattedrale. La prima documentata ricognizione dei resti inumati nel sepolcro alifano risale al 1716.

Da tre lettere papali indirizzate al vescovo alifano, nella seconda metà del dodicesimo secolo, possiamo ricavare utili notizie sullo stato della diocesi. Il papa Alessandro III (1159-81) rispose al vescovo [Baldovino], che gli aveva chiesto indicazioni sul modo di comportarsi per il conferimento di dignità ecclesiastiche che mancavano di titolare da 15 anni, e, ancora, se un prete poteva amministrare due chiese, ed altro. La diocesi aveva risentito negativamente dei conflitti ancora in atto fra i discendenti dei legittimi conti normanni di Alife e le forze realiste. Ed infatti, nel 1198, il vescovo [Landolfo] aveva in animo di effettuare riparazioni per la cattedrale, ma era indebitato. Su autorizzazione di Innocenzo III, per procedere ai lavori, ipotecò una terra del vescovado affittata da Pietro del giudice Guglielmo. Ma profondi contrasti tra il clero ed il vescovo sono messi in rilievo da altra lettera di Innocenzo III al vescovo alifano. Cronologicamente è l’ultima notizia per la diocesi di Alife prima che si inauguri il tredicesimo secolo. Termina così quello che è, forse, il più interessante di tutti i periodi storici per l’Alifano.



Bibliografia essenziale.

A. Gambella, La documentazione esistente sulla Historia Allifana di Alessandro di Telese in Annuario dell’Associazione Storica del Medio Volturno 1998, Edizioni ASMV, Piedimonte Matese, 1999, p. 101-120.

A. Gambella, Potere e popolo nello stato normanno di Alife, CUEN, Napoli, 2000, pp.220.

A. Gambella, Le origini latine della famiglia bizantina Petralifa,
<http://www.medioevoitaliano.it/org/gambella.petralifa.pdf> (Rassegna Storica online 1/2000)
idem: in Annuario dell’Associazione Storica del Medio Volturno 1999, Edizioni ASMV, Piedimonte Matese, 2000, p. 75-80.


A. Gambella, L’episcopato alifano ed il culto in età normanna in Clarus, 3 (Aprile 2001) Edizione elettronica del 12.05.01. (c) Angelo Gambella, 2001. Tutti i diritti riservati. URL: http://medioevo.supereva.it/normanni/culto.htm

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