Solofra nel periodo normanno-svevo

di Mimma de Maio


L’introduzione dei Normanni nel Principato longobardo di Salerno ad opera di Roberto d’Hauteville, il Guiscardo, fu favorito sia dallo stesso principe Guaimario V, di cui aveva sposato la figlia, Sighelgaita, che dal vescovo Alfano poiché il normanno si presentava come una forza giovane in difesa della città che continuò ad essere un grande centro e fu capitale di uno dei più vasti domini normanni.

In questo frangente la pianura di Rota-Montoro, su cui si apre la conca di Solofra, subì profondi rivolgimenti sia per il potenziamento dei castelli di Rota, di Forino e di Montoro posti a difesa della pianura attraversata dalla via di comunicazione con Avellino, sia perché soffrì i danni delle incursioni normanne tra cui le distruzioni di Troisio, uno dei guerrieri venuti al seguito del Guiscardo e da questi nominato conte di Rota (1061). Parte della pianura restò impaludata e ciò portò all’isolamento dell’alto bacino del flubio-rivus siccus (la conca di Solofra) che restò tagliato dalla grande pianura assumendo una nuova definizione. Gravitò infatti su Serino intorno all’agglomerato del Pergola-San Marco, con i castelli di Serino, a nord, e di S. Agata, a sud, e che costituiva il confine, da questo lato, della contea di Rota (usque Serrina de Ripileia).

Qui la vivacità mercantile del periodo precedente subì un arresto e si bloccò il felice rapporto tra la grande città e la sua immediata campagna, e qui la Chiesa di Salerno, mise in atto un intenso programma di riforma del sistema plebano, che aveva caratterizzato l’organizzazione territoriale-religiosa della pianura di Salerno e che si mostrava inadeguato ai nuovi bisogni delle popolazioni, con la creazione delle parrocchie, entità territoriali più ristrette a cui le popolazioni si potevano rapportare direttamente. Dei 13 distretti in cui fu diviso il territorio diocesano cinque erano nella pianura di Rota-Montoro e tra questi l’importante distretto di confine di "Furini et Sirini", cui apparteneva la pieve di S. Angelo e S. Maria del locum Solofre divenuta sede di una parrocchia. Tale distretto fu poi diviso (nella seconda metà del XII secolo) quando si formò l’"archipresbiterati" di Serino che si estendeva a tutto l’alto bacino del flubio-rivus siccus comprendendo il Pergola-San Marco e che si era arricchito della parrocchia di S. Agata.

All’opera di riforma della Chiesa di Salerno si aggiunse la crescita del cenobio di Cava come punto di riferimento per l’encardement delle campagne favorendo la creazione di un intenso rapporto tra organizzazione ecclesiastica del contado e monachesimo protetto da privilegi concessi sia dai re normanni che da Federico II.

Da Troisio di Rota, la contea nel 1081 passò al figlio Ruggiero I, col quale iniziò la dinastia dei Sanseverino e che governò fino al 1125. Egli dette la parte orientale della contea, con centro Montoro e le terre del bacino del flubio-rivus siccus, al figlio, Roberto I, mentre nella parte occidentale, con centro il castello di Rota, si associò l’altro figlio, Enrico. Costui alla morte prematura del fratello Roberto (1119) pretese, vivente ancora il padre, il governo di quelle terre a scapito del nipote Roberto II, ancora minorenne e affidato alla madre Sarracena. La rivendicazione portò, morto il genitore, alla divisione della contea: ad Enrico andò S. Severino-Rota e una parte di Montoro col castello, a Roberto II, col quale si formò il ramo dei Caserta-Tricarico, fu assegnata l’altra metà di Montoro (cioè il vico di S. Agata) e Serino-Solofra che formarono una nuova realtà territoriale, intorno al Pergola-S.Marco con centro Serino.

Nella contea di Rota spicca il buon governo di Ruggiero I Sanseverino che amministrò con saggezza le terre garantendo il possesso fondiario e persino favorendo l’aristocrazia longobarda che entrò a fare parte della nuova burocrazia. Ruggiero inoltre donò molte terre al cenobio di Cava, di cui fu strenuo difensore, introducendo un sistema che divenne una tendenza generalizzata percorsa anche dai piccoli proprietari, quella cioè di porre le terre sotto la protezione del grande ente religioso, le cui immunità portarono in tutta la zona ad un incremento delle attività produttive.

Dopo la divisione della contea di Rota il tenimento di Serino con S. Agata e col territorio di Solofra fu governato per un lungo periodo da Sarracena, prima per la minore età del figlio Roberto II poi per l’assenza di costui dovuta alla guerra in Sicilia. Il governo di Sarracena, che ingrandì il feudo sul versante del Sabato con un dotario del terzo marito, il feudatario di Montella Simone de Tivilla, si pose sulla linea di Ruggiero nel sostenere l’incardinamento religioso di Solofra con donazioni al cenobio di Cava, che era divenuto una importante centro di smistamento dei prodotti della campagna e che permise a Solofra di entrare nel circuito di quegli scambi dando una buona spinta alla ripresa economica della comunità.

Nella divisione del Regno fatta da Ruggiero II di Sicilia in due Capitanie e 11 Giustizierati il tenimento di Serino (con Solofra e S. Agata) entrò a far parte del Giustizierato Principato e terra beneventana, mentre le comunità ebbero una forte spinta alla costituzione delle Universitas. La comunità del vico di Solofra, sviluppatasi intorno alla pieve di S. Angelo e S. Maria, che nel periodo longobardo aveva dato corpo ad un sistema di regole comuni, trovò nei modelli di vita che si erano andati definendo ab antiquo, scanditi dalle feste religiose, un corpus iuris legato al diritto ecclesiastico, che ha maggior valore perché all’interno del ius divinum e che sarà la base della nuova realtà civile. Inoltre col nuovo sistema tributario essa dovette procedere alla divisione del carico fiscale e alla raccolta dei tributi, regolare i rapporti con gli ufficiali del re, soprattutto dovette crearsi un luogo comune dove esercitare la giustizia; e se pur in questo primo periodo non ebbe dei giudici propri ebbe senz’altro una curia dove mandava i suoi homines idonei a rappresentare prima singole persone poi l’intera popolazione.

Con i successori di re Ruggiero, soprattutto sotto il governo di Guglielmo I il Malo (1154-1166), riesplose il contrasto tra i Sanseverino di Caserta - e ora anche di Tricarico - , e quelli di Sanseverino-Marsico quando un discendente di quest’ultimo ramo, il figlio di Enrico, Guglielmo, per aver partecipato ad una congiura contro il re, ebbe confiscati i beni che furono incamerati dalla corona e dati proprio al cugino Roberto II di Caserta-Tricarico, che li aveva a lungo rivendicati inutilmente e che era rimasto fedele al re. Alla morte di Guglielmo il Malo però il Sanseverino di Marsico fu reintegrato nei suoi beni da Guglielmo II il Buono (1166-1189) per cui Roberto II, insieme al primogenito Ruggiero II, si recò a Messina - siamo nel 1168 - per ripetere la rivendicazione. I due Sanseverino di Caserta-Tricarico non ebbero ragione, si videro solo confermati nei loro possessi con l’aggiunta del restante territorio di Montoro.

Alla morte di Roberto II di Caserta-Tricarico (1183) i suoi figli si divisero il feudo more Langobardorum: a Ruggero II andò Tricarico con Serino, quindi S. Agata e il territorio di Solofra, a Guglielmo andò Caserta, Stringano e metà Montoro senza il tenimento di S. Agata.

Alla morte di Ruggiero II, avvenuta verso il 1189, il figlio Giacomo assegnò a Giordano, il casale di Solofra, ma costui morì senza figli e vivente il fratello per cui il feudo ritornò a Giacomo, il quale dovette affrontare un’inchiesta della Magna Curia imperiale perché l’Universitas di Solofra aveva chiesto la decadenza del potere feudale sul casale e l’assegnazione al regio demanio.

Nel difficile empisse seguito alla morte di Guglielmo II il Buono, prima che il trono passasse a Costanza, ultima degli Altavilla e sposa dell’imperatore di Germania Enrico VI, il territorio di Salerno, dove si era rifugiata Costanza, subì saccheggi e distruzioni che toccarono profondamente la piana di Rota-Montoro, cui si aggiunsero, durante la minore età di Federico II, un periodo di anarchia dominato dai militari tedeschi al seguito dell’imperatore e, durante l’assenza dell’arcivescovo di Salerno, arbìtri e prepotenze sulle terre dell’episcopio, nonostante i privilegi di cui godevano. Le terre dipendenti da Cava, protette dalla fama della grande Abbazia, godettero invece di una relativa pace che favorì il processo di sviluppo economico.

Quando Federico II uscì dalla minore età (1201-1202), ristabilì l’autorità della monarchia e mise ordine all’anarchia feudale ridefinendo i rapporti tra i feudatari e i vassalli, ristrutturando l’amministrazione dei Giustizierati e della giustizia, dando una spinta alla costituzioni delle autonomie amministrative, e i privilegi giurisdizionali ed economici alle terre ecclesiastiche per sostenerne lo sviluppo economico. Tutto ciò giovò alla comunità del vico di Solofra, che pur se si vide respinta dall’imperatore la richiesta di decadenza del potere feudale di Giacomo Tricarico, cosa che le impedì di divenire demanio imperiale, non ostacolò l’acquisto prima della sua piena autonomia amministrativa e poi di quella territoriale, quando Giacomo Tricarico, assegnò il vico alla figlia Giordana da lei portato in dote ad Alduino Filangieri. Con l’autonomia territoriale l’Universitas dovette crearsi una base legislativa come si legge negli articoli dei Capitula antiqua Universitatis terre Solofre antiquitus edita.

La comunità di Solofra, che si poggiava sul sostegno delle attività economiche emerse nel periodo longobardo, mostrò così di aver portato a maturazione piena il moto di aggregazione attorno ai possessores, che usavano i proventi delle terre e della pastorizia per il commercio, si mostrò in grado di risolvere i problemi tributari e soprattutto, nella richiesta di sovranità territoriale accanto al desiderio di scuotersi dal giogo feudale, mostrò prospettive economiche tali da motivarla e sostenerla, oltre ad evidenziare una solida azione comune, un pactum, segno di una ben consolidata comunitas, cioè di un gruppo di cittadini mossi da particolari interessi e sensibili a diritti da difendere.

Questa maggiore maturità le fece trovare nel commercio la possibilità di uscire dalle secche dell’economia chiusa e di attingere alle proprie risorse per una ridefinizione delle possibilità produttive locali. Il suo è proprio il caso di quei "loci", di cui parla Giuseppe Galasso, "emergenti per vitalità o per vocazione dalla dominante vita rurale della regione", e che in questo periodo acquistano "fisionomia artigianale propria" con strutture specifiche ed organizzazione familiare. Tutto ciò avvenne perché non mancò mai, nonostante l’assottigliamento all’epoca dell’anarchia, il rapporto con Salerno; perché gli stessi Normanni protessero l’entroterra salernitano considerato uno dei più ricchi del regno; perché l’economia salernitana, che si poggiava su di un’agricoltura legata alla produzione silvo-pastorale ed artigiana amalgamata dalle attività mercantili, attingeva da questa realtà anche il capitale creando un particolare fenomeno di interrelazione. Questo hinterland forniva all’artigianato salernitano soprattutto la materia prima, il prodotto della pastorizia dei monti che orlano a nord e ad est l’entroterra salernitano, sia la lana asportata dalle pelli che le stesse pelli, le quali prima di essere lavorate nelle botteghe di Salerno subivano, le une a Solofra e a Rota le altre nei casali di Giffoni e di Rota, un primo trattamento utilizzando le acque dell’Irno e quelle del flubio-rivus siccus-saltera. Ma il rapporto tra la città e i centri artigianali di piccole dimensioni dell’interno si nota anche per altre attività come la lavorazione del ferro che fu presente a Montoro-S. Agata, fin dal periodo longobardo e si impianterà a Serino.

A determinare e a sostenere lo sviluppo artigianale della Salerno normanna continuarono ad essere, come lo erano stati nel periodo precedente, gli Ebrei, che già costituivano una colonia ricca e vivace presente anche nell’entroterra salernitano e che per le attività legate alla macellazione e alla lavorazione degli oggetti in pelle erano al centro di una sorta di monopolio. Essi erano diventati un gruppo specializzato in specifiche attività artigianali: lavorano la lana e le pelli, svolgono le attività di concia e di manganatura e tintura delle stoffe come lavori autonomi. In più in questo periodo in cui si diffondeva l’uso della moneta essi tesero a diventare, per le possibilità che il prestito offriva, un forte gruppo finanziario. Proprio per le prospettive economiche offerte dagli Ebrei i re Normanni affidarono il controllo della giudaica, il rione salernitano con le abitazioni e botteghe ebraiche, all’Arcivescovo trasformandoli in suoi vassalli, cosa che agevolò i rapporti tra questi artigiani e le terre dell’episcopio donde proveniva la materia prima per le loro attività e contribuì a trasferire le botteghe anche fuori Salerno. Questo artigianato al tempo di Federico II era divenuto così importante che l’imperatore lo fece controllare dal regio erario.

Per la sua ricchezza artigianale a Salerno furono confermati tutti i privilegi goduti nel periodo longobardo a cui si aggiunsero il ius funducariorum e poi il ius tintoriae e, tra i iura nova di Federico II, il ius auripellis (l’arte di impreziosire le pelli con fogli di oro). Questi ultimi attestano la diffusione di un artigianato di lusso - tessuti preziosi e oropelle - che fu una voce importante del commercio di Salerno e di Amalfi. In special modo a Salerno c’erano molte botteghe specializzate nell’arte di impreziosire le pelli con fogli di oro e di argento infatti l’imperatore svevo concesse alla città, unica dopo Napoli, il jus proibendi. Tali privilegi economici, tutti legati ai prodotti delle montagne dell’entroterra salernitano, confermano l’esistenza di un polo in questa area di produzione e indicano dove affondano le radici dell’attività artigianale - la concia delle pelli appunto - che caratterizzò l’alto corso del flubio-rivus siccus. Il grande re svevo pose estrema cura nel proteggere questa realtà adoperandosi affinché fosse favorita anche la mercatura, che era diventata una caratteristica di questa pianura dove attingevano gli amalfitani e dove si era creato un ampio circuito di scambi che percorreva le campagne raccogliendo i prodotti nei mercati minori per convogliarli poi nel grande mercato di Salerno dando a questo tipo di commercio, legato al mondo rurale, la caratteristica di "mercatura di raccolta" che in quel periodo si riscontra anche nel piccolo cabotaggio commerciale delle navi salernitane lungo le coste e che fu sostenuto dal commercio di Amalfi. Federico II creò positive condizioni per facilitare gli scambi con l’apertura di nuove fiere e l’impegno a tenere sicure le strade.

Fiorente fu pure il commercio sostenuto dall’Abbazia di Cava con i suoi porti di Vietri e di Cetara che raccoglieva non solo i prodotti delle terre dell’Abbazia ma anche quelli dei fondi di liberi possessori che avevano contratti protezionistici col monastero.


Edizione elettronica del 16 nov. 2000

Mimma de Maio, Solofra nel periodo normanno-svevo http://medioevo.supereva.it/normanni/solofra.htm, 2000.

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